Parlando di “piante carnivore”
vengono di certo in mente fotogrammi di film e immagini di
racconti ispirati a narrazioni con vegetali provenienti da
luoghi esotici che si nutrono di esseri umani. Una delle
leggende più antiche è forse quella dell’albero in grado di
divorare esseri umani, in Madagascar, che nell’800 ha
suscitato un grande interesse. Un'altra invece parla dei
Trifidi, piante capaci di uscire dal terreno e di cacciare
attivamente la preda.
In ambito botanico, le piante carnivore esistono, ma si
nutrono prevalentemente di insetti o al massimo di piccoli
animali. Curioso è il motivo per cui alcuni vegetali si sono
evoluti verso una tanto particolare strategia nutritiva. Per
comprenderlo bisogna partire da un assunto: le piante oltre a
ricavare glucosio dalla fotosintesi, assimilano gli elementi
nutritivi dal terreno tramite le radici; però quando esso ne è
sprovvisto o ne possiede molto pochi, l’assimilazione non è
sufficiente. È quindi necessario cercare una strategia
alternativa: se i Trifidi delle leggende si sono svincolati
dal terreno per inseguire gli animali, le piante carnivore
esistenti rimangono ancorate alla terra e attraggono le prede,
le catturano e ricavano da esse i nutrienti che mancano dal
suolo. Infatti, le piante carnivore sono riuscite ad adattarsi
a vivere in ambienti molto poveri, come torbiere e suoli
acidi, quasi del tutto privi di azoto, fosforo, potassio e
altri elementi. Le loro necessità hanno fatto si che le foglie
assumessero la funzione di assorbimento, normalmente
prerogativa delle radici, qui molto ridotte.
Le foglie modificate oltre a una mera funzione di assorbimento
si sono evolute in strutture complesse, delle vere e proprie
trappole per le malcapitate prede: una volta catturate e
intrappolate, la pianta secerne enzimi digestivi, questi
digeriscono i tessuti scindendoli nelle strutture elementari
che vengono successivamente assimilate.
Esistono cinque diverse tipologie di trappole:
-
ad ascidio (la preda viene
attirata dentro una foglia modificata a forma di caraffa
contenente enzimi digestivi);
-
adesive (una mucillagine collosa
ricopre le foglie e immobilizza i malcapitati);
-
ad aspirazione (con un movimento
azionato dalla preda, essa viene aspirata dentro una vescica);
-
a scatto (azionata dalla presenza
della vittima la foglia si chiude su di essa, catturandola);
-
a nassa (una serie di peli guida
forzatamente verso l’organo digestivo).
Ognuna di queste trappole è ovviamente specializzata verso uno
specifico tipo di preda, ad esempio quelle adesive sono
funzionali per gli insetti volanti mentre quelle a scatto si
rivelano utili per insetti del suolo, anche molto grandi.
A livello mondiale possiamo contare circa 600 specie di piante
carnivore, che vivono a tutte le latitudini in habitat carenti
di nutrienti. In Italia ci sono solamente tre generi,
tipicamente insettivori e tutti sono associati ai suoli poveri
delle aree umide. Pertanto, il clima sempre più caldo e secco
e le attività che ne riducono gli habitat costituiscono un
pericolo.
Il genere Utricularia (figura 1, 2) comprende piante molto
piccole che vivono direttamente in acqua e sfruttano trappole
ad aspirazione per catturare insetti acquatici o nematodi:
quando sfiorano i piccoli peli posti sull’apertura si crea il
vuoto dentro la vescica ed essi vengono risucchiati
all’interno.
Il genere Drosera (Figura 3, 4) include invece piante
terrestri le cui foglie sono ricoperte di peli secernenti
sostanze appiccicose (molto dispendiose dal punto di vista
energetico per la pianta): attirati da esse gli insetti si
avvicinano e ne rimangono invischiati.
L’ultimo genere italiano, Pinguicola (Figura 4, 5) comprende
piante erbacee le cui rosette basali, secernenti la sostanza
vischiosa, sono sormontate da evidenti fiori bianco-violacei.
Elisabetta (Guida
Equestre Ambientale) del Team
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